30 dicembre 2010

"Sull'incontro" - Testimonianza di Alberto Garutti

Un'ulteriore testimonianza sull'arte pubblica per chiudere il 2010 in bellezza: "Sull'incontro" di Alberto Garutti. Le due immagini si riferiscono all'installazione "Che cosa succede nella stanza quando gli uomini se ne vanno?", sedie laccate con smalto fosforescente. L'artista immagina che all'interno di una stanza, in assenza di esseri umani, "gli oggetti, le cose, i mobili possano percepire la luce del giorno e della notte, sentano suoni e rumori provenire da luoghi vicini o lo squillo del telefono risuonare nella stanza...".

"Le forme e le condizioni del vivere contemporaneo stanno rapidamente cambiando e l’arte, prima e sensibile interprete del mondo, parallelamente ad esse muta i suoi modi e le sue strutture, formali e soprattutto istituzionali.
La società della comunicazione veloce, quindi della multiculturalità e della stratificazione, si consuma e vive oggi la condizione del tempo presente come luogo di sintesi perfetta tra passato e futuro, guidando l’arte a nutrirsi della realtà della vita, spazio fisico in cui il tempo reale (il presente) trova la sua unica espressione.
L’artista si accorge così dell’obsolescenza del tempo sospeso e della condizione stessa (di chiusura) del museo, forma “astratta” da un mondo in cui la gente ha trovato proprio nell’incontro, tra persone e tra pensieri diversi, la modalità più necessaria del vivere.
Credo che il dialogo con lo spettatore, da sempre alla base dell’esistenza dell’opera stessa, venga ad assumere un ruolo ancora più importante adesso, in un momento in cui l’arte ritorna a vivere nello spazio pubblico, in stretto legame con la realtà della vita, quindi con l’architettura, i contesti pubblici, i media e soprattutto un pubblico che non è più quello selezionato del ristretto sistema artistico.
Le grandi opere d’arte non si raccontano mai nella loro interezza all’occhio dell’osservatore; portatrici di senso e significati molto complessi ci sfuggono, contenitori di futuro, prodotti di una visione così obliqua e laterale propria dell’artista, da diventare interpretazioni e sguardi scardinatori del mondo contemporaneo.
Dove trovare allora la verità dell’opera ?
Proprio nell’andare verso di essa, nella ricerca continua dello spettatore (che è in latino colui che si muove verso), nella relazione-incontro che egli intesse con questa forma inafferrabile, e proprio per ciò inesauribile, che è l’opera stessa.
È proprio alla luce di queste considerazioni che sento importante la dimensione dell’incontro all’interno del lavoro dell’arte, sia nella sua forma più “classica” (museale), che in quella contemporanea operante nel mondo urbano e sociale (post-museale). Anche le città, apparentemente freddi e cinici organismi in mutazione solo secondo caratteri funzionali , nascono e si sviluppano a soddisfare proprio un bisogno di relazione che non esito a definire una necessità, un bisogno sentimentale.
Continuo allora a vedere nella figura dell’artista che è il primo vero spettatore, un interprete di questa nuova modalità dell’incontro tra umanità e pensieri di cui la società contemporanea sente forte l’esigenza.
Ma per fare ciò l’artista deve essere capace di scendere dal celebrativo piedestallo che il sistema dell’arte gli ha costruito , pena la progressiva e fatale emarginazione dalla società.
Se infatti l’artista è adottato dal grande museo perché da lui ricava pubblicità e risonanza mediatica, l’artista che incontra la città ha un’occasione straordinaria per ridare valore e forma etica all’operazione artistica; nell’approccio sentimentale con quell’umanità (alterità) che non è il pubblico dell’arte, ma più in generale la gente.
Sento di dover scendere da quel piedistallo che proprio lo status di artista mi concede così da dare vita ad un dialogo in cui l’opera sia protagonista e diventi il vero legame tra me, il mio intervento e il contesto urbano e sociale.
Addirittura sostengo quanto non sia importante che il mio lavoro sia riconosciuto da tutto il pubblico come opera d’arte, ma che venga sentito dalla gente come sguardo nuovo e bello su una realtà a loro vicina.
Quelle opere che si impongono nei luoghi della vita quotidiana senza una riflessione critica minima sul tema dell’intervento in spazi pubblici, appaiono vecchie non tanto dal punto di vista formale, ma da quello metodologico, e perdente nei confronti di quella realtà con la quale il mondo della comunicazione e quindi l’arte in varie forme si stanno misurando.
Definisco proprio per questo la mia opera un lavoro anche di metodo e sui procedimenti del fare. Il percorso realizzativo (l’insieme delle connessioni con la realtà) e il processo mentale che si antepongono alla realizzazione fisica del lavoro risultano così parte integrante e perciò non meno importante dell’opera stessa.
I cittadini ascoltati, sentiti e toccati si trasformano così in committenti reali di un lavoro finalizzato alla loro stessa utilità, sentimentale e concreta, forse proprio senza riconoscere in questa modalità l’antica forma utile che l’arte ha sempre recitato nello scenario della vita.
Sono allora proprio i vincoli e le limitazioni imposte da questa “nuova forma di committenza” a generare nuove strade e imprevedibili sviluppi del pensiero; dunque se la realizzazione fisica del mio lavoro in fondo si nasconde silenziosamente nella città e nel territorio l’intervento che io definisco “sentimentale” invece vuole superare quella sterile stabilità che nasce dalla mancanza di volontà comunicativa tra artista e contesto, e si impone come protagonista proprio perché desidera essere capito, compreso e amato dagli stessi “committenti”.
è sbagliato pensare a questa modalità del fare come al frutto di una strana e inutile forma di demagogia populistica; considero l’importante valore etico da sempre insito nel “piacere artistico” e guardo al tema fortissimo dell’”incontro” come ad una metafora della destabilizzazione, dell’incertezza e quindi del progresso e dell’apertura."

Alberto Garutti

22 dicembre 2010

"Castelli Romani e Arte Pubblica” - Testimonianza di Gillo Dorfles

"Uno dei fenomeni che colpisce maggiormente lo straniero che giunga in Italia, o anche l’italiano che faccia ritorno in patria dopo un lungo soggiorno all’estero, è la straordinaria qualità “architettonica” del paesaggio. Soprattutto chi giunge dagli USA o dall’America Latina - dunque da continenti con scarse memorie storiche - rimane affascinato dalle costanti interferenze tra zone agricole e abitazioni rurali, tra città e campagna, e soprattutto dalla particolare eccellenza “compositiva” di alcune vaste zone da tempo abitate e facenti parte di antiche e gloriose civiltà autoctone (come l’Etruria, la Campania, la Sicilia, ecc...). In altre parole: il dialogo tra le aree edificate (castelli, villaggi, chiese, cascine) e il mondo circostante ci rivela subito quali misteriosi legami si sono venuti costituendo tra il paesaggio e gli artefatti umani in alcune regioni del nostro Paese: come la Toscana, la Campania, e anche nel caso specifico di cui oggi intendiamo trattare: i Castelli Romani, da Marino a Velletri, da Nemi a Albano o Grottaferrata.
Ma quello che dovrebbe innanzi tutto preoccupare l’abitante del presente che ha avuto sotto gli occhi sin dalla nascita lo spettacolo di straordinaria armonia del suo ambiente, è di poter preservare e eventualmente migliorare questo rapporto, rendendosi conto come questa armonia - anche quando appare del tutto “spontanea” - è in realtà dovuta all’intervento costante dell’uomo e che è di massima importanza mantenere e possibilmente accrescere questo legame di reciproca intesa tra la Natura e l’Artificio. “Artificio”, che può consistere nella centrale elettrica, come nella chiesa, nel terminal aeroportuario come nell’antico palazzo feudale, nel grattacielo come nel supermercato, studiando accuratamente quale possa essere il miglior progetto capace di determinare l’invidiabile rapporto esestente tra le premesse naturali e le creazioni artificiali realizzate dall’uomo.
La zona dei Castelli Romani, tra le tante, è una di quelle che si prestano molto bene a valere da esempio per una attuale e futura possibilità du nuovi interventi da inserire in un paesaggio urbano e agreste già cosi ricco di situazioni naturali e di presenze storiche e artistiche...
...Credo tuttavia che l’urgenza e la “necessità” di studiare questo rapporto sia fondamentale e debba essere considerato attentamente proprio per evitare certe infelici soluzioni, di cui purtroppo siamo spessi testimoni.
Un primo quesito che si pone a questo proposito è quello da sempre dibattuto: fini a che punto si avverte oggi la necessità di inserire nuove opere pubbliche in uno spazio pubblico; non solo entro le cerchia urbane, ma nei tanti “spazi vuoti” delle periferie, degli svincoli stradali, delle oasi ancora esistenti in mezzo alle grandi arterie del traffico? Fino a che punto, in altre parole, ha diritto di esistere una “arte puibblica”, una progettazione plastica o pittorica che possa essere inclusa in un panorama già esistente, senza distruggerlo?
Ritengo - anche a prescindere da ogni valutazione critica - che sia di notevole peso la realizzazione di determinate strutture che possono presentare innanzitutto una funzione spiccatamente “semantica”.
In altre parole: come un viale di cipressi, un albero millenario, uno sperone roccioso, sono in grado di movimentare un paesaggio di per sè monotono e poco attraente, così la presenza di importanti strutture architettoniche e plastiche - poste nei punti più strategici - potranno offrire all’ambiente circostante una “riconoscibilità” (una “semantizzazione”) del tutto essenziale: avranno, dunque, la funzione di verie propri modulatori segnaletici di un territorio...
...A questo proposito mi sembra ancora una volta opportuno di ribadire come sia necessario tornare a coinvolgere la cittadinanza (anche di piccoli nuclei urbani ed extraurbani) nella creazione, visualizzazione, e critica di monumenti o comunque di nuove strutture pubbliche.
Soltanto attraverso la familiarizzazione con le correnti artistiche attuali, sarà possibile che anche “il grosso pubblico” possa aggiornarsi e partecipare alla valutazione di quanto viene offerto dall’arte e dall’architettura dei nostri giorni."

Gillo Dorfles

19 dicembre 2010

"L’arte pubblica in Italia: lo spazio delle relazioni" - Testimonianza di Anna Detheridge

"Nella società disarmonica della tarda modernità, ogni artista è solo con la propria visione del mondo. Definito soltanto dal rapporto che stabilisce (o no) con ciò che normalmente viene definito il sistema dell’arte, le sue gallerie, giornali specializzati e il museo, ha la sensazione che la libertà assoluta di cui gode nell’elaborazione della propria poetica assomigli sempre di più a una esclusione o estromissione dal corpo sociale, e che la sua posizione rasenti l’isolamento. La sua attività soffre inevitabilmente di un mancato suffragio, e conseguentemente di consistenza. Épater le bourgeois, il committente collezionista, non ha più alcun senso.
Le rapide trasformazioni in atto che portano le persone a godere di una socialità vissuta fuori dall’ambito domestico in situazioni e luoghi che non hanno più le logiche di condivisione di un tempo, ma sono piuttosto di “attraversamento distratto” (dalle vie commerciali delle città, alle tangenziali, alla metropolitana, all’aeroporto, all’ospedale, agli uffici pubblici, ai luoghi di lavoro), riposizionano il senso del fare artistico. Nasce l’esigenza sentita da molti artisti di ritrovare un dialogo con un committente diverso, di esplorare una realtà che ponga finalmente dei vincoli, quelli dell’ascolto e delle richieste provenienti non più dal collezionista, ma da una committenza che prospetti interventi creativi per la collettività. I luoghi della ricostruzione di socialità sono piuttosto ai margini della società e nascosti nelle pieghe del particolarismo, negli interstizi tra luoghi e persone senza volto nel mondo mediatico autoriferito.
Non si tratta in realtà di un progetto utopico, anche se impropriamente di utopia si è molto discusso, ma piuttosto di un nuovo realismo, intento a rilevare realtà quotidiane celate sotto l’immensa coltre della comunicazione commerciale. Le finalità dell’arte relazionale nella sfera pubblica non sono propriamente politiche ma più semplicemente “demofone” e cioè mirate a fornire un terreno neutro d’incontro e dar voce e visibilità a chi ne è sprovvisto.
Alcuni artisti trovano le radici della loro prassi artistica nell’attivismo degli anni 60 e 70, ma la maggior parte esprime una consapevolezza diversa, un bagaglio culturale e sentimentale apolitico e tutt’altro che militante. Nemmeno si può parlare di estetica relazionale, termine coniato in Francia per un’estetica ludica che in quanto “estetica” non possiede come principio del proprio agire l’esigenza di un confronto reale tra le parti ...
... Gli interrogativi sui quali chinarsi sono innanzitutto la qualità e il senso della democrazia oggi a cominciare dal nostro Paese, l’autonomia e la funzione dell’arte. Il paradosso che “Lo spazio delle relazioni” spalanca è il seguente: l’unico modo per l’arte di ritenere la propria autonomia oggi non è quello di farsi prassi dentro il corpo sociale?
Da almeno dieci anni si moltiplicano le iniziative fuori dal circuito delle gallerie e che hanno poco a che fare con la produzione di opere nel senso più convenzionale. Nell’aprile del 2000 alla Royal College of Art a Londra si è tenuta una mostra intitolata democracy in cui si è tentata una prima ricognizione internazionale di quelle pratiche artistiche e curatoriali che non sono intese come prodotto, ma come processo, mettendo in mostra ciò che non è destinato in prima istanza all’esposizione. Il titolo democracy è un punto di partenza per esaminare da vicino il senso del rapporto tra artista, spettatore e committente. Si riesamina lo status sociale dell’arte, i suoi significati reconditi, le sue ambizioni, i suoi pubblici...
...Esattamente come lo sviluppo sostenibile, anche “l’arte sostenibile” si fonda su una contabilizzazione del valore della vita civile e di relazione. L’obiettivo finale è di fornire un contesto al lavoro pubblico degli artisti, segnalando il ruolo delle nuove forme di mediazione, e, in fin dei conti, delle istituzioni. Le scelte di questi ultimi saranno determinanti nella ricerca di soluzioni rispettose della vita collettiva delle persone, per salvaguardare e ricucire i rapporti tra le parti sociali, e per guidare i processi di trasformazione e di rigenerazione urbana in un’ottica di negoziazione e di superamento dei conflitti." 

Anna Detheridge

16 dicembre 2010

"Arte per il territorio" - Testimonianza di Michele Costanzo

"La diversa sensibilità con cui l’umanità tende in epoca contemporanea a confrontarsi con la realtà che la circonda, ha prodotto nel campo dell’arte, come effetto omologo, un diverso modo di essere dell’oggetto estetico, e l’idea di poter entrare in comunicazione con esso attraverso criteri e modalità del tutto nuove; e questo, attraverso una variegata gamma di espressioni, di manifestazioni che hanno come obiettivo comune il coinvolgimento ‘emotivo’ degli spettatori.
In tale differente condizione, che fa seguito ad una generale crisi del sapere e delle certezze che finora avevano segnato l’individuale tracciato esistenziale, l’utente (diversamente dal passato) non attende più dall’opera risposte ad interrogativi su valori generali trascendenti o, come riflesso più circoscritto, sul senso del proprio esistere, ma piuttosto prende atto della realtà con cui ciclicamente si confronta, entrando in contatto con i materiali artistici in forma diretta, immediata cercando di tessere insieme ad essi un genere di rapporto tutto rivolto verso il piano della sensibilità e del sentimento, piuttosto che verso quello logico/riflessivo, caratterizzato, ora dall’osservazione della banalità, della normalità, della quotidianità dei fatti immediati, ora dall’approccio ad aspetti della vita di tipo edonistico, ludico, o fantastico.
A tutto questo bisogna aggiungere il fondamentale ruolo assunto, nell’ansiosa condizione del presente, dal dinamismo impresso in forma generalizzata al vivere sociale, che ha portato come conseguenza più o meno diretta a considerare la contemplazione come una forma d’improvviso arresto del ritmo dell’esistere, una sorta d’intollerabile “perdita di tempo” da cui sembra possibile ricavare solo paura, o angoscia.
A seguito di ciò, l’arte non si pone più come un’entità irraggiungibile, imperfettibile, al di fuori del flusso temporale, ma come forma d’espressione che tende a scendere al livello della coscienza ordinaria, per cui in un certo senso essa viene ‘offerta’ in modo che possa essere afferrata dal fruitore per integrarla nella propria coscienza, o nel contesto fisico a cui è destinata. Così alla spettacolare po­tenza dell’espressione, che un tempo apparteneva al mondo della raffigurazione, all’insinuante, rapinoso fascino che l’immagine artistica ha sempre cercato di trasmettere di sé, si è andata sostituendo una valenza di genere evocativo che consiste nell’indirizzare l’attenzione di chi guarda non più verso la percezione del messaggio ideale-for­male contenuto nell’opera, quanto piuttosto nel suo proporsi come evento e, quindi, come coinvolgimento e spettacolo.
In questo senso, per l’arte contemporanea bisogna considerare una diversa reazione percettiva e una differente risposta interpretativa da parte di chi osserva, in rapporto a due situazioni distinte: ossia rispetto all’opera in sé, considerata come entità autonoma, astratta dall’ambiente di riferimento, e alle presenze materiali che definiscono lo spazio in cui, nelle diverse occasioni che si presentano, essa trova luogo. In questo secondo caso, l’ambiente interagisce con l’opera, e chi osserva è indotto, in tal modo, ad elaborare significati sempre nuovi. L’intervento espositivo, concepito il più delle volte fuori degli schemi tradizionali (per destare sorpresa e interesse), stimola la fantasia interpretativa del riguardante, anche aldilà delle intenzionalità stesse dall’autore.
Da tale considerazione emerge un dato distintivo dell’arte contempora­nea, che è la tensione indirizzata non più al raggiungimento di un significato univoco dell’opera, ma piuttosto all’arricchimento della sensibilità e della fantasia di chi la fruisce. L’arte in questo modo punta al “farsi del significato”, che è un’espressione spesso impiegata per esprimere in forma icastica le profonde implicazioni, che mette in luce nel rapportarsi con la realtà e con gli stessi molteplici aspetti che la costituiscono. Significato, che tende a raggiungere il suo compimento, in senso formale e concettuale, attraverso un serrato intreccio di relazioni, sviluppate fra artista, pubblico, opera e luogo, anche se tutto questo può portare ad un esito non necessariamente stabile nel tempo. L’ambiente, in questo caso, è la dimen­sione concreta in cui l’oggetto artistico vive, e da cui trae ‘alimento’, ed è, altresì, il decisivo termine di confronto nel processo di ‘riconoscimento’ del suo significato.
Le elaborazioni spaziali più interessanti e singolari della nuova architettura museale, gli allesti­menti più eclatanti delle mostre, per non parlare delle strutture che gli artisti realizzano in ambienti che potremmo definire ‘impropri’ (in quanto originariamente creati per assolvere ad altre finalità funzionali), o all’aperto in ambienti urbani, o in spazi naturali, non sem­brano voler più esprimere quella volontà di “riappaesamento” che, ancora negli allestimenti museali degli anni Ottanta, rappresentavano il tentativo di risarcimento del mitico paesaggio perduto della ‘contemplazione dell’arte’, quanto piuttosto quello della ricerca di reciproche influenze/interferenze (magari in base a modalità del tutto nuove e inesplorate) con le diverse forme in cui si materializza il mondo circostante, e con i molteplici aspetti della vita quotidiana.
Tali rapporti relazionali possono avere luogo (anche se con fondamentali, intrinseche differenze), sia nel vibrante silenzio e nella spoglia semplicità di uno spazio geometricamente ordinato che, all’opposto, in confusi, dissonanti, caotici ambienti, in cui vige la compresenza del molteplice. Tutto questo può indifferentemente attuarsi nel processo percettivo tramite le accese diversità cromatiche di certe rappresentazioni, o la netta distinzione/separazione tra le opere esposte mediante l’impiego di sapienti pause, o serrate scansioni ritmiche, o attraverso la diversificazione visiva della lontananza/vicinanza, o infine, lasciando che nello sguardo rivolto all’opera, agiscano imponderabili fattori quali l’improvviso cambio di luminosità del cielo (a seguito del movimento delle nuvole), o la ciclica mutazione quantitativa/qualitativa dell’intensità della luce nell’arco stagionale. Di tutte queste problematiche (che sembrano costantemente sottrarsi alla comune consapevolezza) si nutre l’arte d’oggi, per la sensibilità acquisita nei confronti della varietà/diversità dei caratteri ambientali, derivanti dalle caratteristiche fisiche (in senso tradizionale) dello spazio-contenitore interno/esterno, ed anche dagli stessi criteri espositivi impiegati per organizzare, dislocare i materiali artistici negli specifici ambiti riservati all’esposizione."

Michele Costanzo

13 dicembre 2010

"Punto di cristallizzazione per contatti ravvicinati" - Testimonianza di Francois Burkhardt

Riproponiamo la prima di quattro testimonianze molto interessanti sull'arte pubblica, inserite sul sito diffusamentemuseo.it, in occasione della mostra "Arte in Giusta Misura" tenutasi presso le Scuderie Aldobrandini di Frascati (Roma) tra fine 2005 e inizio 2006. Personalità come Francois Burkhardt, Michele Costanzo, Anna Detheridge e Gillo Dorfles fanno il punto della situazione sull'arte pubblica, in particolar modo in Italia, esaltandone la sua funzione sociale e di integrazione fra ambiente umano e ambiente naturale.
Il primo testo presentato, di Francois Burkhardt, si intitola: "Arte pubblica e sociale: Punto di cristallizzazione per contatti ravvicinati".

" Il progetto fu realizzato in occasione di un concorso nel quadro dell’utilizzazione del 2% del prezzo del costo delle costruzioni dedicate all’arte (Kunst am Bau) stabilito dalla normativa sulle costruzioni in Germania. In un quartiere periferico pianificato ed edificato di nuovo alla fine degli anni ’60 ad Amburgo era stato bandito un concorso per la presentazione di opere d’arte lungo un asse pubblico che portava dalla stazione periferica al cuore del nuovo quartiere residenziale. Lungo questo asse erano stati posti servizi pubblici e centri commerciali lasciando uno spazio di verde pubblico che doveva servire come luogo di ricreazione e di passeggiate. Le opere d’arte dovevano essere poste lungo questo asse pedonale.
Urbanes-Design, un gruppo interdisciplinare che abbiamo creato nel 1968, aveva lo scopo di far uscire l’arte dai circuiti abituali per attribuirle una funzione sociale e cercare di integrarla nell’ambiente urbano, una ricerca di integrazione delle funzioni dell’arte in un contesto più vasto mettendola al servizio dei bisogni collettivi. Una specie di dialogo tra architettura, arte e contesto urbano che dà all’arte un senso che va bene al di là della pratica abituale attribuita all’estetica aprendosi alle funzioni ambientale-ornamentale e a quella dell’orientamento, due aspetti fondamentali per il benessere degli abitanti in un quartiere residenziale. Poiché l’abitante ha bisogno di riconoscersi e di identificarsi con i luoghi dove è radicato, funzione psicologica di base che permette contatti armoniosi con la collettività.
Forte delle conoscenze acquisite nel corso degli studi universitari con il gruppo della scuola psicoanalitica di Francoforte che ruotava intorno a Alexandre Mitscherlich e Alfred Lorenzer, Urbanes–Design decise di applicare queste conoscenze al progetto del concorso e di contribuire ad una nuova funzione dell’arte. Con nostro stupore la giuria del concorso comprese l’approccio e ne apprezzò il concetto formale, assegnandoci il primo premio. Avevamo centrato mezzi e programmi, scegliendo un punto cruciale che permetteva la vista dell’oggetto da lontano: l’opera d’arte diveniva un punto di riferimento, una specie di segnale nel paesaggio urbano, ma doveva nello stesso tempo coprire delle funzioni pratiche, mettendo un oggetto estetico nelle mani degli abitanti del quartiere, sollecitandoli all’utilizzo. Per questo motivo abbiamo disegnato una struttura, una sorta di piccola arena protetta sulla parte posteriore con un laghetto sulla parte anteriore, un luogo intimo e aperto capace di offrire molteplici possibilità a funzioni diverse. Una struttura pensata per favorire gli incontri, gli scambi, la presentazione, per assemblare e favorire i contatti tra gli abitanti e rafforzare i legami sociali, da cui il nome di “punto di cristallizzazione”. Nello stesso tempo l’oggetto doveva essere un punto di orientamento, di riferimento specifico, inconfondibile, un segno di riferimento per l’identità del quartiere, facendo di un luogo comune un luogo di riferimento e di comunicazione, scopo del nostro progetto.
I materiali utilizzati: calcestruzzo armato per formare l’arena, assi di legno per i tramezzi verticali. Le assi di legno servono ad assicurare una struttura visiva che vive con la variazione dell’altezza di queste ultime. Il concetto cromatico: nella parte posteriore convessa le assi di legno sono dipinte con colori primari passivi: bianco grigio e nero. Quelle sulla parte concava in colori attivi: rosso, giallo e blu.
La pratica ha dimostrato che l’oggetto nella sua utilizzazione e nel suo concetto corrisponde perfettamente agli scopi che noi avevamo fissato."


Francois Burkhardt