8 gennaio 2011

Verso la città diffusa di Michele Costanzo

 Quello che caratterizza la forma dei grandi agglomerati urbani che si sviluppano ai margini delle città è il senso della disomogeneità.
Il nostro Paese ha rinunciato a progettare in modo unitario le grandi quantità edilizie della ricostruzione e del boom ed ha, altresì, consentito alla speculazione sui terreni privati di far crescere un immenso magma edilizio attorno ai centri antichi, privo di un interno ordine.
Esiste un curioso paradosso che investe tali moderne periferie: esse vengono realizzate per soddisfare un bisogno primario (che è quello del vivere in uno spazio organizzato) e, nello stesso tempo, sono rifiutate da chi le abita in quanto non sembrano trasmettere dei valori.
La spazialità atopica che le costituisce non è più il margine dell’edilizia storica ma l’essenza di una realtà nuova, quella della “città diffusa”, una sorta di polvere densa che si espande in maniera inarrestabile nel territorio, senza alcun principio d’ordine.
Essa non può essere definita città, o campagna, o area metropolitana ma, piuttosto, ‘controcittà’; il suo modello risulta essere assolutamente diverso da quello considerato ‘ideale’.
Non a caso, nell’immagine di “città ideale” della tavoletta di Urbino, ciò che nella prospettiva viene posto in primo piano non è tanto il valore estetico delle singole architetture quanto, piuttosto, la ‘struttura’ dello spazio pubblico che esse configurano, vale a dire il criterio sintattico a cui ogni elemento, presente nella rappresentazione, risponde.
La consapevolezza di tale discrasia viene percepita come una forma di deprivazione; ne consegue che lo spazio urbano è letto come non-luogo o luogo del disagio.
Il malessere che si sviluppa nella “città diffusa”, ha come punto d’origine il senso della lontananza (lontananza dal ‘centro’, ossia dalla città storica) e quindi dell’emarginazione.
Sarebbe necessario (o perlomeno auspicabile) invertire questa tendenza e riuscire a leggere la ‘periferia’ come un fenomeno urbanistico rappresentativo della nostra realtà e della nostra cultura; un fenomeno che ha cambiato il paesaggio ed ora attende di essere compreso riconosciuto.
Ciò che è necessario, dunque, è modificare lo sguardo sulla nuova realtà territoriale che si sta configurando.
Una soluzione possibile sarebbe quella di attivare una capacità di visione in analogia a ciò che, ad esempio, è già avvenuto nel cinema con Wenders, nella fotografia con Basilico e Ghirri, nell’arte figurativa con Hopper e nella letteratura con Pasolini; i quali hanno saputo esplorare in maniera poetica le risorse offerte dalla nuova realtà.

1 commento:

  1. Se le " nuove realta' " fossero in
    " reale" contatto con " il centro " allora si'.. !!!

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